All’indomani della pandemia, una nuova percezione del mondo ha portato le persone ad interrogarsi sul proprio stile di vita e su una gestione più sostenibile del tempo.
Il modo di approcciarsi al lavoro è cambiato e l’orario di lavoro non è più quello di una volta.
Anche le organizzazioni aziendali cavalcano l’onda del cambiamento e la gestione tradizionale del lavoro sembra ormai un vecchio ricordo. Lo smartworking ne ha cambiato per sempre la sua forma.
A farsi strada è il desiderio di una maggiore flessibilità dei tempi di vita e di lavoro e i bisogni dei singoli si coniugano con le esigenze di produttività e di orientamento al risultato, spingendosi anche al di là degli schemi tradizionali e predefiniti.
Chronoworking: una nuova tendenza
In primo piano si colloca la nuova tendenza al “Chronoworking”, termine coniato dalla giornalista britannica Ellen Scott; si tratta di una modalità di organizzazione creativa del lavoro che consiste nella scelta dei dipendenti di concentrare la propria prestazione lavorativa all’interno di uno slot orario che segue ritmi biologici del proprio corpo (il c.d. “cronotipo”), sganciandosi quindi dall’articolazione oraria “tradizionale” che si colloca normalmente dalle ore 9.00 alle 17.00.
Il cronolavoro sembra rivoluzionare la stessa idea di giornata lavorativa tradizionale conformando le attività alle maggiori prestazioni individuali.
Come afferma un articolo della BBC, “alcuni lavoratori raggiungono il picco di produttività nelle ore notturne e vogliono lavorare dopo che la maggior parte delle persone si è disconnessa”. Questo potrebbe incidere negativamente sul fattore relazionale.
Tra opportunità e rischi
Permettere al personale di lavorare quando ritengono di aver raggiunto il picco di produttività potrebbe aumentare il loro grado di soddisfazione e di conseguenza, questo permette all’azienda di mantenere più a lungo i dipendenti nel proprio organico.
Se con lo smartworking si era in parte superata l’idea di un luogo di lavoro fisico in cui trascorrere la maggior parte del tempo, il “cronolavoro” rivoluziona anche il tempo del lavoro, personalizzandolo in base al proprio personale concetto di produttività.
Al momento il fenomeno sembra funzionare soltanto per alcune realtà aziendali, mentre per altre, questo approccio non può funzionare semplicemente perché costituirebbe un rischio per la fidelizzazione della clientela.
L’idea che alcuni dipendenti lavorino soltanto la notte potrebbe apportare un gap informativo al team aziendale, specialmente tra chi partecipa alle riunioni giornaliere e chi, invece, rischia di perderle perché non connesso durante l’orario diurno. In tal caso andrebbero predisposti strumenti di comunicazione e collaborazione adeguati a garantire a tutti un’interazione adeguata.
Per questa ragione alcune aziende richiedono ai dipendenti la presenza al lavoro almeno entro fasce di orario ben precise (ad esempio dalle 11.00 alle 15.00).
La spinta innovativa del cronolavoro, nel suo complesso, potrebbe dipendere anche dall’approccio generazionale al lavoro.
Chi sono i promotori del Chronoworking?
La generazione Z (nati tra il 1997 e il 2012) sembra di gran lunga preferire un orario serale/notturno rispetto alla generazione dei Millenials, abituati all’idea che il lavoro non debba mai prolungarsi oltre le ore 18.00.
Guardando poi al contesto nazionale in cui la contrattazione collettiva riveste un’importanza peculiare nella tutela dei diritti dei lavoratori, un fenomeno quale il chronoworking andrebbe monitorato in virtù dei potenziali rischi per la salute psicofisica dei dipendenti, specialmente nel caso in cui la prestazione di lavoro si collochi all’interno di fasce orarie per cui la negoziazione sindacale prevede maggiorazioni e particolarità legate al lavoro notturno.
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