USA: vietati i patti di non concorrenza nel lavoro

Nell’intricato meccanismo del rapporto di lavoro, i soggetti coinvolti tentano di far valere i propri interessi avvalendosi di appositi strumenti individuati dalla legge al fine di delimitare l’abuso di posizione da parte di una delle parti. 

Negli USA, recentemente, la Federal Trade Commission ha diramato il divieto di stipula di patti di non concorrenza tra datore e lavoratore. L’importante e innovativa decisione ha già conquistato diverse contestazioni al riguardo.  

Il 23 aprile 2024 l’Agenzia governativa statunitense ha proceduto con l’emanazione della norma che vieta qualsiasi tipologia di accordo di non concorrenza su tutto il territorio federale. La nuova disposizione entrerà in vigore dopo 120 giorni dalla sua pubblicazione e avrà efficacia retroattiva anche sui patti conclusi in precedenza. 

I motivi del divieto

Secondo uno studio elaborato dal Dipartimento del Lavoro degli USA (U.S. Department of Labor) e riportato dal Washinton Post “ci sono circa 30 milioni di lavoratori statunitensi soggetti ad accordi di non concorrenza. Si stima così una percentuale del 18% sulla generalità degli americani”. 

A detta dei commissari della maggioranza è una diretta conseguenza degli effetti provocati dagli accordi sul mercato del lavoro. Un netto contrasto alla libertà di iniziativa economica, con ingenti ripercussioni sulle opportunità di carriera dei lavoratori e sui loro salari.  

L’esigenza di dover salvaguardare l’economia della singola impresa attraverso l’impiego di patti di non concorrenza, comporterebbe la riduzione drastica delle prospettive di carriera dei prestatori di lavoro, con un conseguente impatto negativo sul mercato, che, a sua volta, osserverebbe inerme picchi di precarietà.  

Secondo una prima stima della Federal Trade Commission con l’applicazione del nuovo disposto si assisterebbe ad un netto incremento dei salari; l’aumento è stimato in circa 300 miliardi di dollari l’anno. 

Per la stampa americana, la nuova legge va considerata come un’importante sforzo dall’agenzia governativa: verso l’espansione della legislazione antitrust, verso un maggior rilievo alla posizione del lavoratore e alla sua autonomia. Con la garanzia, allo stesso tempo, della possibilità di intraprendere dopo la cessazione di un rapporto un’attività che possa risultare persino concorrenziale a quella svolta prima. 

La questione non è di poca rilevanza e sembra alimentare uno scenario conflittuale in cui la maggior parte degli imprenditori sul territorio ha idee del tutto opposte e minaccia l’avvio di procedimenti legali verso l’organismo responsabile. 

Il diverso approccio dell’ordinamento italiano 

Mentre il sistema americano espande i confini della legislazione antitrust, l’ordinamento italiano è invece fermamente preposto alla sigla degli accordi di non concorrenza, legalmente riconosciuti dal disposto normativo contenuto nell’articolo 2125 del Codice civile. 

L’articolo dispone la possibilità di concordare l’esistenza di un vincolo per il lavoratore, limitando lo svolgimento della sua attività a seguito della cessazione del rapporto di lavoro, a fronte di un corrispettivo e per un certo periodo di tempo. 

In questo modo si conferisce alle imprese uno strumento limitativo dell’autonomia del prestatore così da riuscire, per un determinato lasso temporale, a custodire quelli che sono i preziosi elementi che compongono il “sapere” di un’azienda,: il “know-how” aziendale, in cui confluiscono per esempio la propria organizzazione, la clientela e le metodologie applicate ai processi di produzione. 

Allo stesso tempo il nostro legislatore ha provveduto al bilanciamento degli interessi di entrambe le parti e ha marcato il confine di tale istituto assoggettandolo a vincoli temporali e di forma garantendo, anche per il lavoratore, una tutela al caso. 

L’accordo, a pena di nullità, deve essere redatto in forma scritta e prevedere un corrispettivo per il lavoratore che soggiace alla misura. Il divieto potrà avere una durata massima di 3 anni che potrà estendersi a 5 per la sola classe dirigenziale.  

In aggiunta, potranno considerarsi tutti gli approfondimenti del caso approdati nei vari gradi di giudizio nel corso del tempo. Vanno ricordate, al proposito, le sentenze della Cassazione n.5691 del 2002 e n. 13282 del 2003, con le quali si chiariscono le classi e le attività interessate dall’accordo.  

Il patto di non concorrenza può riguardare anche tutti coloro che operino in settori in cui l’imprenditore possa subite un concreto pregiudizio in termini di mercato”. (Cass., 19/4/2002, n. 5691) 

“Il patto di non concorrenza può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro” (Cass., 10/9/2023, n.13282).

Conclusioni 

In conclusione, mentre gli Stati Uniti si accingono all’esplorazione di nuovi orizzonti della legislazione antitrust, l’Italia risulta essere un Paese la cui idea di fondo è quella di ovviare alla prevalenza di una delle parti sull’altra, attraverso l’uso di meccanismi ben oliati dalla stessa giurisprudenza e in grado di equilibrare al meglio tale confronto d’interessi. 

Sarà interessante osservare gli effetti che seguiranno all’emanazione del provvedimento in controtendenza dell’agenzia statunitense e valutare, oltre alle conseguenze, quale dei due approcci parte, o arriva, vincente. 

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