Discriminazione al rovescio

L’articolo si intitola “discriminazione al rovescio”, in quanto parte dall’assunto, popolare e generazionale, per il quale gli esseri umani di sesso maschile non possono, in quanto a capo del mondo, subire discriminazione di genere da esseri umani di sesso femminile o subire violenze di nessun tipo da queste.

La battaglia contro la discriminazione di genere

La violenza e la discriminazione di genere è una delle grandi battaglie degli anni ’20 del nostro secolo. Innumerevoli sono le previsioni normative in tal senso, tra le tante si possono ricordare il cd. “codice rosso” o ancora l’introduzione del “femminicidio”. Tuttavia anche se il legislatore correttamente ha previsto queste norme in via del tutto neutrale, in poco tempo sono state strumentalizzate per mostrare solo una delle due facce della medaglia della discriminazione, ovvero quella femminile.

Tale campagna tuttavia ha comportato a una visione miope del problema volto a colpevolizzare un intero genere rendendolo la fonte di ogni Male. Spesso i media dipingono questa categoria come esseri usciti dall’ultimo girone infernale dantesco, sottoposti per cattiveria solo alla stella del mattino al solo scopo di deturpare la beltade femminile. Tuttavia anche questi demoni subiscono violenze, che può essere fisica, economica o affettiva. In rete, come nella maggior parte della letteratura scientifica, è molto agevole trovare articoli scritti su questo argomento pur essendo monotematici (mostrano solo una parte del problema).

Tutto sommato non c’è molto interesse allo studio della problematica inversa in quanto questo vorrebbe dire minare tutta la teoria costruita fino ad ora del demone cattivo che maltratta il bellissimo angelo.

Le uniche notizie trovate sulla problematica della violenza sugli uomini in Italia è uno studio riportato dal Giornale il quale riprendeva una ricerca dell’università di Siena del 2012 la quale riportava una quota di 5 milioni gli uomini vittime di violenza femminile. Su questa tematica purtroppo non si parla spesso.

Dal punto di vista della discriminazione la situazione è per lo più la stessa. Sicuramente è vero che l’uomo in alcuni settori è più avvantaggiato e gode di stipendi più alti e di ruoli di maggior rilievo, ma allo stesso tempo in altri contesti il dato forse tende a rovesciarsi. Soprattutto in quei campi che sono sempre stati appannaggio femminile, come ad esempio l’insegnante delle scuole primarie, nella categoria degli infermieri e in generale nelle materie ricomprese nella categoria degli HEED.

A volte a discriminare il cd. sesso forte è lo stesso Legislatore che in buona fede svolge le sue attività regolatorie. La normativa di cui si fa riferimento in tal caso riguarda la possibilità della madre di 2 o 3 figli minori di beneficiare di uno sgravio contributivo per l’invalidità e la vecchiaia, pari al 100%, a nel limite massimo annuo di 3 mila euro.

La norma introdotta dalla legge di bilancio del 2024, seppur animata dalla migliori intenzioni, ovvero quella relativa alla lotta al declino demografico che il paese sta vivendo, nasconde una vena discriminatoria. Infatti ci si chiede il motivo per il quale ai padri che si ritrovano nella stessa situazione non debbano fruire dello stesso benefit previdenziale.

A trattare di un argomento particolarmente simile a questo è stata la Corte Europea, la quale era stata incaricata di verificare la correttezza di una norma che avvantaggiasse le madri di due o più figli concedendole un’ integrazione alla pensione maturata fino al 15%.

La questione che ne fa la Corte verte sulla parità di trattamento di soggetti diversi in situazioni comparabili, in materia previdenziale come previsto dalla direttiva 79/7 UE.

Fra le norme della direttiva si annovera di certo la questione dei regimi previdenziali nei quali sono espressamente inclusi quelli relativi ai rischi di invalidità e di vecchiaia (articolo 3). Inoltre l’articolo 4 della stessa direttiva menziona, fra le discriminazioni vietate, proprio quelle riguardanti «l’obbligo di versare i contributi e il calcolo degli stessi». 

L’unica eccezione che viene concessa è inerente alle casistiche legate alle maternità peculiari e specifiche per le donne. Infatti si è chiarito che da un lato, per quanto concerne la situazione del congedo di maternità, la Corte ha dichiarato che le donne si trovano «in una situazione specifica la quale implica che venga loro concessa una tutela speciale, ma che non può venir assimilata a quella di un lavoratore maschio né a quella di una donna effettivamente presente sul posto di lavoro […]».

D’altro lato però l’organo giudicante ha anche affermato che in tutti gli altri aspetti, l’uomo potrebbe avere gli stessi diritti della donna e godere degli stessi benefit.

Questo in quanto la nozione di maternità inserita nella direttiva europea si riferisce, secondo la Corte, a necessità prettamente biologiche che portano alla non comparabilità tra i due sessi. Inoltre tali differenze sono legate in qualche modo anche alla questione temporale, infatti tale deroghe non possono essere perpetrate nel tempo per il solo fatto di essere madre.

Secondo la Corte si riscontrerebbe una discriminazione al rovescio anche nel caso in cui delle norme concepiscano il concetto di maternità come quelli generici di essere madre o genitore.

La norma della legge di bilancio potrebbe astrattamente rientrare nella tutela attiva dell’art. 6 par. 3 del TFUE, tuttavia in tal senso bisognerebbe verificare se lo sgravio sia idoneo a compensare i svantaggi di carriera delle donne rispetto agli uomini. Ad avviso dello scrivente tale elemento sarà tutto da verificare, in quanto non si percepisce un elemento egualitario in tal senso.

Tutte le critiche riportate dai giudici alla disciplina spagnola sono del tutto comparabili con la situazione italiana. Infatti l’esenzione previdenziale non sembra legato da una parte all’evento maternità in senso stretto nè sembrerebbe farlo rientrare nelle situazioni coperte dal trattato sul funzionamento dell’Unione Europea in quanto non comporterebbe alcun beneficio alla parificazione della carriera delle donne rispetto a quella degli uomini.

Quanto detto finora avrebbe una possibile conseguenza ovvero quella di poter richiedere ed ottenere dall’Istituto di previdenza italiano la fruizione dello sgravio contributivo.

Se l’INPS si rifiuterà di concederlo, allora sarà il giudice che dovrà accertare il fatto e di farsi riconoscere il diritto a fruire di tale sgravio ai sensi della direttiva UE 79/7 come interpretata nel caso spagnolo.

Si ricorda che le normative europee si possono considerare in qualche modo gerarchicamente superiori a quelle ordinarie, a volte anche alle norme costituzionali, almeno per quanto riguarda la sua interpretazioni, e  che pertanto il giudice nel caso concreto ha il compito di disapplicare la normativa interna in favore di quella unitaria.

In conclusione si può certamente affermare che l’esonero mamme ha vari punti critici, lascia fuori da questa platea le madri con un figlio. Lascia fuori coloro che hanno un tempo determinato o stipulato altre tipologie contrattuali (come l’intermittente e la somministrazione), oltre che i padri che risultano avere le stesse caratteristiche delle madri.

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