Il 24 marzo di 150 anni fa nasceva Luigi Einaudi. Ad un secolo e mezzo dalla sua nascita, le sue idee camminano ancora tra noi. Economista, statista, politico, professore universitario, membro dell’Assemblea costituente, imprenditore agricolo e giornalista, Luigi Einaudi è stato tutto questo e molto di più. Una figura poliedrica del nostro tempo. Un intellettuale a tutto tondo. L’altra faccia del pensiero liberale italiano che insieme e contro Benedetto Croce, da lui stesso nominato senatore a vita durante la sua presidenza, contribuì a creare una via tutta italiana della dottrina liberale.
Un tessitore della politica
Fu il primo Presidente di una neonata Repubblica, dopo la presidenza ad interim di Enrico De Nicola, ad essere eletto dal Parlamento. Nel suo discorso d’insediamento, il 12 maggio del 1948, disse:
“la Costituzione che l’Italia si è ora data è una sfida […] Essa afferma due principi solenni: conservare della struttura sociale presente tutto ciò e soltanto ciò che è garanzia della libertà della persona umana contro l’onnipotenza dello Stato e la prepotenza privata; e garantire a tutti, qualunque siano i casi fortuiti della nascita, la maggiore uguaglianza possibile nei punti di partenza […]”.
Quando fu scelto come Presidente della Repubblica, l’Italia stava attraversando un momento difficile. Alle spalle le macerie lasciate dal fascismo e dalla guerra, davanti un futuro incerto e ancora da definire: Luigi Einaudi seppe costruire un ponte tra il prima e il dopo lavorando incessantemente sul presente. Un ponte sul quale ancora oggi stiamo camminando.
La sua elezione a Presidente inaugurò un settennato all’insegna del pragmatismo e della semplicità. Politico pacato e profondamente ancorato ai valori della res publica riuscì a portare all’attenzione del Parlamento molti temi diversi con la capacità di non sminuirne nessuno. Sapeva che ogni filo tematico, sapientemente intrecciato, avrebbe contribuito a regalare al mondo l’immagine di un’Italia nuova.
Un sociologo della finanza
Fu governatore della Banca d’Italia dal 1945 al 1948 e ministro del bilancio nel 1947. Ebbe sempre un approccio moderno al fatto finanziario gestendolo come parte di un meccanismo sociale più ampio. Nonostante fosse anche un economista, sapeva leggere oltre i numeri e attraverso i numeri voleva elevare spiritualmente la res publica e gli animali politici che la popolavano.
Nel pensiero economico di Einaudi, l’uomo è visto sia come individuo libero che come membro di una collettività: l’uno (l’individuo) per esistere e resistere ha bisogno dell’altra (la collettività).
È su queste basi che matura la sua teoria sociologica della finanza e che si pone in forte controtendenza al pensiero economicista dell’epoca.
Secondo Einaudi il prelevamento dell’imposta era il mezzo attraverso il quale una società può diventare migliore nel lungo periodo: “l’uomo «politico» sa od intuisce che egli è un «altro» appunto per la sua appartenenza al corpo collettivo; sa od intuisce che la sua fortuna, i suoi redditi, le sue maniere di vita sono condizionate dall’esistenza degli altri uomini e dello stato; sa che, pagando l’imposta, egli non dà cosa creata da lui, ma cosa creata dallo stato o da lui quale parte dello stato”.
Un pioniere dell’Europa
Quando l’Europa non esisteva, Luigi Einaudi ne aveva già maturato il bisogno. Sotto lo pseudonimo di Junius, le sue pubblicazioni giovanili sul Corriere della Sera costituiranno, anni più tardi, la base di partenza per il Manifesto di Ventotene di Spinelli e Rossi.
In un articolo del 1918 dal titolo “Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle Nazioni” scriveva che “sovra ogni altra cosa è necessario distruggere le idee da cui la guerra è stata originata. Tra le quali idee feconde di male, se condotte alle loro estreme conseguenze, quella del dogma della sovranità assoluta e perfetta in se stessa è massimamente malefica”.
Un presagio dei tempi oscuri che da lì a qualche anno avrebbero travolto l’Europa e il mondo intero con l’avvento dei regimi totalitari. Per quanto statista, sapeva che l’esasperazione dello statalismo avrebbe condotto verso nuove guerre volte solo a stabilire con la forza la supremazia di uno Stato sull’altro.
Einaudi, mentre le ideologie totalitarie si stavano pericolosamente innestando nella mente degli uomini, sognava già un mare calmo in cui poter navigare in libertà. Quel che era e sarebbe diventato barriera fisica e confine militarizzato, per Einaudi era un punto di contatto tra Stati.
Un esule patriottico
Dal settembre del 1943 al dicembre del 1944, temendo di finire tra le fauci della Repubblica di Salò, trovò rifugio in Svizzera. Pur essendo costretto a diventare un esule, Einaudi rimase sempre fedele al suo Paese con la convinzione di farvi un giorno ritorno.
Approfittò di questo momento lontano dalla Patria per riflettere sul futuro del suo paese e studiare da vicino il modello democratico svedese. Durante il periodo dell’esilio tenne anche un diario, destinato più all’uso personale che alla pubblicazione. Continuò a scriverlo anche una volta ritornato a Roma “per ricordare i discorsi che si sentono”.
Lo scritto, nonostante molto intimo, rappresenta una chiave di lettura interessante e dimostra come, seppur tra le mille difficoltà quotidiane dell’esilio, l’attenzione di Einaudi era sempre rivolta al suo paese e a quello che sarebbe venuto dopo.
Il territorio svizzero fu un punto di osservazione privilegiato. Einaudi partecipò ad incontri diplomatici, a meeting informali e si interessò di stampa libera. Annotò tutto costantemente sotto forma di appunti.
È anche da quel crogiolo di pensieri che prenderà poi forma l’Italia libera e repubblicana.
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